Ritratto di Annibale Mariotti (1961)

Ritratto di Annibale Mariotti, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, s. VII, n. 1, Firenze, gennaio-aprile 1961, poi in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit. (1963 ed edizioni successive) e in W. Binni, La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, Perugia, Regione dell’Umbria, 1984 e ristampe ed edizioni successive (1989, 2001, 2007).

RITRATTO DI ANNIBALE MARIOTTI

Annibale Mariotti (vissuto a Perugia dal 15 settembre 1738 al 10 giugno 1801) non fu una grande personalità, ma certo fu un uomo ben vivo nella sua città e nel suo tempo, un uomo che seppe settecentescamente comporre scienza, poesia e studio erudito e fu soprattutto un uomo che, venuta l’occasione, seppe pagar di persona con molta dignità e con molta consapevolezza di ciò che aveva fatto e non fatto.

Vissuto sino al 1754 a Perugia e laureato in quella università in medicina, sentí subito il bisogno di avvicinarsi, al di là della dubbia scienza locale, all’insegnamento romano del Jacquier, dello Stay e del Le Seur studiando fisica e meccanica per poi, nel ’58, riportare gioiosamente i frutti della sua nuova cultura sperimentale nella sua città, cui fu sempre affezionatissimo. E quanti tratti del suo carattere bonario e critico, ironico e poco pretenzioso ne fanno un perugino esemplare, amante della città, della sua storia, del suo clima, della sua bellezza montana a cui, in occasione appunto del suo ritorno da Roma, innalzava un inno di gratitudine in elaborati versi latini che mostrano subito in lui l’educazione umanistica e la scuola dei classici usufruita settecentescamente come scuola di forma e come coerente ideale di nobilitazione di temi vivi, contemporanei, nell’alta perfezione della lingua e della tradizione latina, nella similarità di ideali razionalnaturali, nel saldo binomio di tipo pariniano Natura-Ragione, Piacere-Virtú, e con tutto un inerente gusto della vitalità, e dell’eleganza classica che la eternizza e la sigla lontano da una morta reviviscenza archeologica:

... Jamque procul tectorum culmina nosco

montibus impositas turres patriaeque superba

moenia, quaeque leves adspirant collibus auras.

Non sarà certo la grazia sicura del Rolli che nel ritorno dall’Inghilterra a Todi cantava «l’aria leggera sotto azzurro cielo», ma son pur versi non volgari, prima testimonianza di sentimenti e modi di un tipico uomo e letterato del secondo Settecento, che, pur avendo altri interessi predominanti di carattere scientifico ed erudito, voleva e sapeva intrecciare a quelli il respiro consolatore e stimolante della poesia, senza mai illudersi di essere un vero e grande poeta, senza mai cedere – modesto e consapevole, semplice e schietto – alle tentazioni sproporzionate dell’invasamento apollineo cosí fastidioso in tanti versificatori della sua epoca e alle cui pretese ridicole sapeva contrapporre dichiarazioni di una poetica modesta e gradevole di verseggiatore contento di trarre dal proprio culto della poesia una consolazione privata e socievole, un conforto e incoraggiamento ad una vita gentile e civile, che gli meritarono la citazione onorevole del Croce quando nel suo saggio sull’Arcadia questi riportava alcuni versi recitati dal Mariotti nel giardino arcadico del Frontone:

Non io però fin dall’eteree sedi

un foco agitator chiamo e desio

che l’irritabil core ecciti a moti

troppo vividi e spessi, e per gli occulti

del cerebro recessi arbitro errando,

l’ordin ci turbi delle impresse forme,

me tolga a me stesso, ond’io non vegga

non parli che cose altere e nove,

sol da un ardente immaginar create,

tal ch’io me poco, ed altri non m’intenda.

Piano sentier, qual si conviene al pigro

debile ingegno mio, m’aprite, o Muse!

Dove ben si avverte – in una specie di spaccato settecentesco che rende la figura del Mariotti ben significativa per un clima medio di secondo Settecento seppure un po’ provinciale e minore – l’antipatia per le forme ampollose e oscure per mentita ispirazione dei poeti-vati del tempo, dei verseggiatori del grande e del sublime pindareschi e profetici, e una nozione di poesia conversevole e meditativa, piana e modesta, inserita nel cerchio della ragionevolezza e del buon senso comune, ambiziosa di assoluta comprensibilità e comunicabilità: e dunque una presa di coscienza sicura dei propri limiti e dei propri ideali e insieme il riflesso di una mente calma e chiara, di una educazione scientifica e sperimentale che attribuiscono il Mariotti soprattutto a quelle correnti di metà secolo che svolgono ideali e modi arcadici di chiarezza e di socievolezza, di naturalezza e di disciplina formale ed interiore soprattutto nelle forme di una letteratura discorsiva appoggiata al sensismo e all’illuminismo dell’epoca, adatta particolarmente ad uomini di cultura scientifica. Qual era quella che piú direttamente il medico e professore Mariotti possedeva e sviluppava, dopo la sua educazione romana, nell’attività professionale (che era poi la prima maniera sua di essere utile concretamente alla sua città) e nell’attività accademica svolta con grande serietà nell’Università e in aperta lotta con i residui della cultura aristotelica e scolastica, la quale guardava con sospetto l’introduzione da parte del Mariotti di nuovi strumenti sperimentali e contro cui nei suoi scritti abbondano frecciate violente per i «ridicula argumenta» le «inutiles quaestiones» le «nugae», o addirittura, con sdegno scientifico e morale insieme, contro il nefas, il turpe di una pseudoscienza che in nome di una malintesa pietas religiosa voleva ostacolare la libera trionfale avanzata della scienza sperimentale europea, della scienza all’insegna di Cartesio e Newton. Con un’audacia decisa che lo portava sino a sostenere tesi a volte piuttosto azzardate (come quella della possibilità di gravidanza nell’uomo) pur di sostenere la libertà dell’esperienza e della ricerca spregiudicata, che poi veniva da lui accuratamente appoggiata ad una forte conoscenza di ricerche ed esperimenti italiani ed europei in una vasta documentazione accresciuta da una prospettiva di attenzione, di curiosità, di relazioni epistolari con dotti e scienziati italiani e stranieri con cui il Mariotti rompeva il precedente isolamento perugino, come faceva ugualmente sul piano delle sue ricerche erudite di studioso della storia locale, delle patrie memorie, che lo avvicinavano al Tiraboschi, al Garampi e a tutti i piú sicuri eruditi italiani del tempo.

Mentre le sue ricerche scientifiche ed erudite, con le quali ultime (specie con le Lettere pittoriche che ricostruiscono i dati e le date della tradizione pittorica perugina e uniscono l’amore per la verità di fatto con l’appassionata e stimolante esaltazione della gloria cittadina sin nelle sue origini etrusche e nella giustificazione assai interessante di una intensa vita artistica quale corrispettivo di una forte vita democratica) egli si associava al lavoro erudito dei Lanzi e dei Tiraboschi, venivano irrorate di un candido e chiaro amore per la virtú senza cui scienza ed erudizione gli sembravano vane ed inutili. Sicché al centro di tutta la sua attività si possono richiamare certe dichiarazioni di entusiasmo morale ben coerenti alla sua integrale posizione illuministica e aperte da alcuni versi giovanili del 1759, che non si possono rileggere senza avvertirvi una partecipazione schietta da parte di quest’uomo che in esse legava tutti i suoi interessi e un senso della vita tutt’altro che sprovveduto ed ingenuo, pur nella linea rossa del suo coraggio ottimistico e progressivo:

Bella virtú che sempre a te simile

di te sempre sei paga, e in cui si aduna

quanto v’ha di piú bello e piú gentile,

se v’è felicità, tu sei quell’una.

Non saranno grandi versi e la chiusa è nettamente provvisoria e scadente da un punto di vista artistico, ma hanno sapore di sincerità assoluta. E ben intonano la linea su cui si svolge la stessa attività poetica del Mariotti che, con esito variamente efficace, val meglio considerare in questa prospettiva di letteratura ispirata a motivi morali e civili, in cui la stessa galanteria, l’attenzione al fascino femminile e, parinianamente, al «grato della beltà spettacolo», mentre è motivo vivo e svolto in accordo con tipici filoni di letteratura secondosettecentesca, soprattutto secondo i moduli contemporanei della lirica savioliana (e dunque testimonianza di un significato di contemporaneità, di viva apertura alle forme della letteratura del suo tempo), ben corrisponde ad un ideale di gentilezza e di civiltà con cui il Mariotti partecipava a quella ricostituzione di una vita piú socievole, naturale e progressiva che impegnava la società intellettuale settecentesca sin dall’Arcadia e che ora, in zona illuministica, assumeva un tanto piú chiaro valore civile. Tanto che nel discorso tenuto, in epoca repubblicana, per la rappresentazione del Bruto di Voltaire, il Mariotti fortemente batteva sull’essenziale acquisto di civiltà significato dalla presenza delle donne fra il pubblico e fra gli attori, dato che la interpretazione di parti femminili da parte di uomini gli sembrava parinianamente un’offesa alla naturalezza e alla natura: «Non può l’amore debitamente esprimersi né conviene che si esprima da altri oggetti se non se da quelli che son fatti dal Cielo per ispirarlo».

Che non era solo un’amabile chiusa di convenienza galante del letterato ossequioso verso le sue concittadine, pastorelle dell’Arcadia repubblicana, ma il sincero sentimento dell’uomo del Settecento illuministico che nella natura e nella ragione, nel piacere e nella virtú vedeva i termini saldi della sua vera fede, il senso di una fruizione sana, antiascetica e saggiamente spregiudicata della vita.

Da questo punto di vista la produzione poetica del Mariotti (certo comunque migliore di molta sua prosa accademica paludata e atteggiata, seppur non priva di idee e di chiarezza) prende per noi un suo doppio valore: quello di rappresentare, entro la concreta società perugina, cui egli interamente appartenne e volle appartenere, fino ad esserne organizzatore di accademie e della ripresa, nel 1778, di una tarda Arcadia (modo comunque di affiatamento di Perugia con le altre città italiane), le principali correnti poetiche in vigore fra il ’60 e l’80 circa (da riprese piú stanche del sonettismo arcadico, fra temi pastorali ed elogi encomiastico-storici alla Filicaia e Frugoni, a forme pariniane e soprattutto savioliane di odicine amorose, a un largo esercizio di versi sciolti di stampo didascalico-illuministico sino a rari barlumi di malinconiche cadenze preromantiche) e piú il valore di segnare chiaramente l’interesse etico-civile dell’illuminista, moderato sí, ma disposto, quando venne il momento, ad accettare, ben coerentemente con gli stessi motivi espressi in poesia, la responsabilità amministrativa e politica al segno della libertà repubblicana e democratica.

Cosí già nei sonetti di tipo filicaiano e frugoniano la rievocazione della battaglia di Azio sarà pretesto ad una riflessione illuministica antiromana contro la violenza e la dominazione sopraffattrice, il tema della Temperanza darà l’avvio ad una meditazione sulla rovina degli stati desiderosi di smodata grandezza e di potenza imperialistica e alcuni sonetti per monacazione singolarmente coloriscono, di fronte al finale pio, piú convenzionale, il valore della vita familiare e mondana, della fruizione di beni vitali e naturali negati alla giovane reclusa. Ed è davvero singolare in un sonetto per monacazione questa perorazione molto partecipata di un advocatus diaboli troppo eloquente:

No, non potrai, quando piú forti i sensi

di lor natia ragione usar vorranno,

no, fuggir non potrai, come tu pensi,

entro quel chiostro ogni mondano affanno.

In quel silenzio piú che altrove intensi

gli amanti affetti al cor sentir si fanno;

né tra i vani potrai desiri accensi

molto goder del lusinghiero inganno.

E mostrar ben potrai liete e gioconde

le luci allor; ma fia, che tardi accorta

l’alma di noia e di dispetto abbonde.

E non potrai... Dove il livor ti porta

rio tentator? Sí, tutto (ella risponde)

tutto posso in quel Dio che mi conforta.

Dove è evidente che l’accento preme, piú che sul finale religioso, sui sensi spontanei, sulla natia ragione, sugli amanti affetti di una giovane donna: i termini su cui, piú convenientemente, il Mariotti insiste piú volte in poesie per nozze, come quando scrive ad una sposa ritrosa:

Del natural desio che in te non dorme

sol ti piaccia seguir la facil arte

e di raro vigor al tuo conforme

ne’ tuoi figli vedrai non dubbia parte

o nella prefazione alla traduzione dei Consigli agli sposi di Plutarco (ché significativamente preferisce presentare agli sposi questo solido testo di naturale buon senso che non epitalami abusati e convenzionali) o nelle numerose canzonette erotiche che conservano tutto sommato la parte piú gustosa e accettabile della produzione in versi del Mariotti.

Anche lí, e soprattutto lí, campeggiano Natura e Ragione, Piacere e Virtú e, lungi da ogni punta libertina, questi ideali si consolidano nella tenue ma gustosa rappresentazione realistico-classicistica di immagini di sanità naturale e di civile eleganza e compostezza: immagini di giovani donne amorose:

Alle pupille tremule

piú acuto stral si scocca:

nuovo cinabro spargesi

sulla ridente bocca.

Tondeggia il collo eburneo

sotto il bel crine aurato

per mano delle Veneri

raccolto e inanellato.

Quindi in gentil declivio

molle discende e unito

alabastrino l’omero

al braccio ben tornito

o modeste scenette di quieta e sana vita villereccia invernale:

E il buon villan già libero

d’ogni gravosa cura,

gli ozi che i Dei gli ferono

omai goder procura.

Quindi di fessa rovere

e di silvestre oliva

chiuso in suo vil tugurio

stridule fiamme avviva;

tutta tremante e gelida

al focolar fumoso

la famigliola assidesi

in placido riposo...

Tutta al canton rannicchiasi

colla conocchia amica

ruvido fuso a volgere

l’ispida madre antica.

E a lei di cor consimile

siede vicina ancora

discinta il petto tumido

la pia feconda nuora

cui mentre intorno pendono

i pargoletti figli

e or questo or quel rimprovera

de’ ciechi lor consigli,

o antichi panni e laceri

provida risarcisce,

o in maglie minutissime

spoglie alle piante ordisce...

Poesiole da antologia di minori savioliani e pariniani con di suo un gusto piú acerbo e spesso incondito di piccolo realismo provinciale e artigianale tutt’altro che sgradevole, come certe repliche provinciali di mobili rococò e neoclassici. Al centro un amore umanistico per la poesia come conforto di vita socievole e come privato diletto congiunto allo studio e all’amore umanistico per la cultura. Secondo i versi di tipo cassoliano del sonetto La libreria, forse i piú pacati e limpidi di tutta la produzione mariottiana:

Sacra alle Muse e a me verace e sola

fonte di pura calma e di contento,

romita cameretta, in cui ben sento

ch’ogni torbida idea da me s’invola:

tu negli aurei volumi illustre scuola

d’ogni saver mi schiudi; in te men lento

scende il chiomato Apollo, e a par del vento

fra’ tuoi dotti piaceri il dí sen vola...

E insieme al centro il sentimento della vita antiascetica e laboriosa che giustifica idealmente, anche se non sostiene poeticamente, un sonetto sull’incontentabilità umana che alla noia dei pigri oppone i termini della vita piena e della morte piuttosto che immagini oltremondane e moralità religiose. Non che il Mariotti sia stato un irreligioso o ateo, ché anzi il suo illuminismo, come spesso avviene sin nel Parini, si associa assai agevolmente ad una pratica tradizionale e ad un cristianesimo illuminato e tollerante, ma appunto a un cristianesimo nella sua accezione piú illuministica e piú pratica e morale che ascetica e metafisica. E che si apre soprattutto alla vita e ai suoi valori, come si può ben vedere anche in quel curioso e gustoso atto unico Il pallone volante, del 1784, che usufruisce di certa sottile e gracile vena comica non rara nel Mariotti (si pensi ad un sonetto sul Demonio di Socrate fatto consistere nella famigerata Santippe) per chiara presa di posizione illuministica, non alta ed enfatica come quella dell’Ode montiana al Signor di Montgolfier, ma discreta e sicura.

È evidente infatti che nel contesto leggero e un po’ gracile, fra ingenuo e malizioso, con un impasto a suo modo molto piacevole, certe battute si isolano per la loro voce precisa di una fede nel progresso che vive in tutti i personaggi (figurine graziose ed agili, fra popolaresche e raffinate) ad esclusione del petulante signorotto provinciale, incivile e fatuo (quasi una replica minore di certi nobilotti goldoniani sgarbati e tracotanti), che non crede nei lumi della ragione e sdegna la vicinanza della plebaglia e a cui il milord inglese, il borghese italiano affabile e uguale con tutti, la fidanzata che rifiuta a lui la sua mano, tutta piena di entusiasmo per le nuove scoperte fino a voler partecipare essa stessa al primo viaggio degli Charles e Robert, e soprattutto il caffettiere Criquet, voce del buon senso e del nuovo orgoglio egualitario del popolo francese, danno sorridenti, ma consistenti lezioni di comportamento e di ragionevolezza, fino a rimandarlo scorbacchiato alla città di provincia in cui esercita i suoi malcollocati privilegi. E che senso se non quello di una fede democratica e illuministica si può dare alla battuta di Criquet? «Eh via signor Tibaudier. Se viaggiando per aria, si arriverà mai fino alla luna, oh quante belle memorie si caveranno da quegli archivi per provare ad evidenza che tutti nasciamo ad un modo!», o a quella con cui di nuovo il caffettiere esprime il suo desiderio di assistere al decollo del pallone volante («palloni che viaggino per aria non gli ho veduti mai. De’ palloni che stan sempre per terra, oh di questi sí che ne ho veduti e ne vedo ogni giorno»), o a quella del Milord («un regno riceve piú onore da due filosofi che da un infinito numero di oziosi e di storditi») o alle serie parole con cui questi ribatte alla ironia di Tibaudier («Bellissima! I parigini sono annoiati di stare in terra e voglion star per aria») dicendo: «Questa è una voglia fra gli uomini antica assai».

Il Pallone volante era uno scherzo, un divertimento fatto perché anche «il nostro popolo minuto», come dice il Mariotti, «avesse un’idea di quella famosa macchina». Ma gli ideali che premono dentro quella prosa leggera e festosa eran venuti sempre piú maturando nell’animo del Mariotti e lo si vide bene quando, giunti, nel 1799, i francesi a Perugia, essi vi proclamarono la repubblica ed egli si assunse il compito del gonfalonierato, massima carica cittadina, senza esitazioni, senza reticenze e manifestando piú volte pubblicamente a chiarissime note i suoi sentimenti e le sue idee. Come nel discorso tenuto, quale direttore delle tragiche azioni teatrali nella perugina accademia nazionale di belle lettere ed arti, per la rappresentazione del Giunio Bruto di Voltaire, in cui, dopo un violento esordio antitirannico («Impallidiscono a te davanti, o Bruto, gli oppressori superbi dei Diritti dell’uomo, gli astuti fautori delle crudeltà e delle scelleraggini; gli insidiatori protervi della onestà e della innocenza. Ma con lieta fronte e sincera ti miri chiunque ha in petto un’anima libera, chiunque ama la umanità e la virtú. Qui tu non vedi né Tarquinii, né Porsenni, né Arunti. Qui l’onor, la giustizia, l’amor, la pace, applaudiscono agli eroi della libertà, ai difensori della uguaglianza, ai vindici della ragione»), egli svolse il tema squisitamente repubblicano e alfieriano dei legami indissolubili fra la poesia tragica, educatrice di virtú e di libertà, e le condizioni dei governi democratici, e della sua incompatibilità con qualsiasi regime assoluto. O come nel discorso tenuto da lui in qualità di rettore dell’Università, in occasione della riapertura di quella riformata in senso democratico: discorso ancor piú significativo e per le citazioni degli enciclopedisti e di Rousseau e per una singolare contrapposizione, nella storia perugina, a cui sempre il Mariotti attentamente guardava, fra gli eroi democratici, i Cesti, i Biondi, gli Andreotti, e «le aste scellerate dell’aristocratico Fortebraccio», per la decisa antinomia fra il «passato barbaro tirannico giogo» e la presente «rigenerazione», per gli elogi al popolo francese promotore della libertà di tutti i popoli, per un piú vasto raccordo fra libertà, cultura, scienza e morale. Termini ormai piú chiaramente enucleati e fra di loro associati in questa gioiosa realizzazione dei costanti ideali del Mariotti quali si erano venuti maturando nella sua complessa esperienza di cittadino, di letterato, di scienziato, di illuminista coerentemente disposto ad adeguarsi all’allargamento degli orizzonti democratici che già albeggiavano entro la sua opera e la sua attività precedenti.

Né mancò al compito della sua figura di rappresentante della migliore tradizione democratica perugina e degli uomini del ’99 l’aureola della persecuzione e del carcere, quando, caduta, dopo eroica resistenza, la Perugia repubblicana sotto i colpi dell’armata dei sanfedisti aretini, egli fu arrestato e condotto ad Arezzo, esposto con la sua veneranda canizie agli insulti della plebe reazionaria, costretto poi, dopo un peregrinare fra le prigioni di Arezzo e di Perugia, a chiudere la sua vita fra umilianti persecuzioni e un processo durante il quale la sua abilissima difesa seppe pur mostrare, nelle pieghe di una posizione legalitaria, la sua fedeltà agli ideali piú intimi e alla sua coscienza di cittadino.